É strano ritornare sulle immagini di denuncia dell’internamento e della segregazione del manicomio proprio sull’orlo di una quarantena pandemica. Eppure i frammenti raccolti in questo catalogo ci raccontano più che mai quanto l’arte, o meglio le e gli artisti, possano dire e fare nei processi di trasformazione sociale. Allora forse questa storia, questa prima “storia dell’arte” può aiutarci a pensare in che modo le pratiche espressive aprano nuovi mondi, invece di rinchiudere le persone o disciplinare l’immaginazione.
A più di quarant’anni dalla chiusura definitiva del manicomio di Trieste, ma pure negli stessi giorni in cui migliaia di persone sono “morte di istituzione” nelle case di riposo per anziani, Palinsesto Basagliano propone un mosaico di pratiche artistiche protagoniste della storia di liberazione avvenuta a Trieste, per interrogarle a partire dalle contraddizioni e dalle sfide del nostro presente.
Contro ogni istituzione totale, la storia basagliana rappresenta un processo di emancipazione fondamentale del secolo scorso, partito dallo smantellamento del manicomio e ancora vivo in un modello urbano di salute di importanza mondiale, che afferma oggi più che mai la responsabilità che i saperi esperti debbono assumere per diventare strumenti democratici di sostegno comune della vita.
Oltre la psichiatria, questa storia rappresenta un riferimento della critica istituzionale nell’arte e la cultura, in quanto affronta l’istituzione come trama sociale, storica e materiale, la cui incidenza non é solo disciplinare, ma propriamente politica e soprattutto soggettiva. Istituzioni di cura che non possono essere istituzioni di custodia. istituzioni da mettere sotto attacco per cambiarle, ogni giorno.
A partire dagli scorci catturati da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin nel 1969 per Morire di Classe in alcuni manicomi italiani possiamo cominciare a indagare la forza delle pratiche espressive per agire questa denuncia, per costruire questo cambiamento. Franco Basaglia chiese agli artisti di allearsi alla sua equipe per poter portare il dramma dei manicomi in mezzo al dibattito pubblico. e la fotografia, l’immagine in movimento, la presa di parola delle persone internate furono il primo passaggio in un lungo processo di emancipazione.
“All’internato non viene offerta altra alternativa oltre la sottomissione al medico e, quindi, la condizione di colonizzato. Deve diventare un corpo istituzionalizzato, che è vissuto e si vive come oggetto. Fino a quando comincerà ad essere definito nelle cartelle cliniche «ben adattato all’ambiente, collaborativo, ordinato nella persona»: allora sarà definitivamente sancita la sua condizione di soggetto passivo, che esiste solo come numero. Questa la carriera del malato di mente nel manicomio. Di fronte a una tale realtà o si è complici e si accetta coscientemente la delega di guardiani di prigionieri senza colpa; o si tenta di rovesciare la situazione dimostrando quanto sia facile provocare la violenza dei malati, quando si usano sistemi violenti.”
A partire da queste parole di Franca Ongaro e Franco Basaglia, nel nostro archivio online, i filmati dei corpi fatti oggetti in un manicomio torinese del 1908 si scontrano ai volti e ai corpi che esplodono nelle immagini di Morire di Classe, come anche nelle interviste di Sergio Zavoli e Silvano Agosti, Marco Bellocchio e molti altri.
Morire di Classe irrompe e stravolge le immagini lombrosiane del diciannovesimo secolo, quelle disciplinari delle scuole psichiatriche di inizio Novecento per affermare un’altra voce e un altro corpo, negato ma vivo. Si tratta di corpi contenuti ogni giorno, eppure sempre capaci di liberazione ed emancipazione, perché parte di una società in cambiamento, dei suoi conflitti, delle sue contraddizioni.
Senza denuncia non c’è cambiamento, ma soprattutto non c’è cambiamento senza pratica, senza invenzione, senza responsabilità. Altrimenti tutto può cambiare senza che nulla cambi.
La molteplicità delle immagini degli archivi personali, raccolti e ancora non organizzati nel fondo Oltre Il Giardino, scopre un mondo che cambia, una invenzione che esplode nella città, nella vita quotidiana, nei bar e nelle strade. La diversità e la singolarità invadono lo spazio urbano e Trieste diventa un laboratorio in cui le pratiche artistiche, come quelle di cura, perdono confini e ruoli. Il sapere diventa strumento democratico per prendersi cura degli altri, per prendersi cura della società, per prendersi cura della città.
Eppure le fotografie di Morire di Classe sono immagini, purtroppo, senza tempo. Tornano a mostrarsi a Leros, in Grecia, alla fine degli anni ottanta. E Antonella Pizzamiglio fotografa “sufficientemente sprovveduta e adeguatamente incosciente” si intrufola nelle strutture manicomiali per denunciare e cambiare, per ricominciare quel cammino che Basaglia, Cerati, Berengo Gardin e tanti altri avevano intrapreso ormai trent’anni prima, ovvero sessant’anni fa.
Ci racconta Giovanna Gallio in un testo che trasforma le immagini in parole, il destino che ha portato queste fotografie a restare invisibili per tanto tempo. Dopo il congresso europeo di salute mentale in cui furono presentate per suscitare un radicale cambiamento, infatti, queste immagini scomparvero per più di vent’anni, “per non dare ulteriormente scandalo”.
“Questo è stato il prezzo pagato in uno scambio con le amministrazioni locali per iniziare a lavorare nel manicomio di Leros e cambiare l’assistenza psichiatrica nell’isola. Ovviamente sarei stata libera di pubblicare le foto di Leros, ma quel lavoro non l’avevo fatto per diventare una reporter famosa, bensì per aiutare le persone internate. Diffondere quelle fotografie significava rafforzare lo “scandalo di Leros” umiliando anche gli operatori greci, i filakes che avrebbero dovuto da allora in poi diventare i protagonisti del cambiamento”.
Eppure queste immagini ritornano. Duemila e tre, Valona, Albania. Le fotografie dell’archivio personale di Marco Spanò denunciano una volta di più i muri dietro cui nascono i mostri.
“Non si sarà mai sicuri che le mura i cancelli la violenza, una volta eliminati dall’istituzione psichiatrica, non tornino a proporsi riconfermando l’impossibilità di una riabilitazione reale, che deve essere esplicitamente legata all’altro polo del dialogo, la società. Ma finché il nostro sistema sociale non si rivela interessato al recupero di chi è stato escluso, la riabilitazione del malato mentale resta limitata ad un’azione umanitaria all’interno di una istituzione che lascia intatto il nucleo centrale del problema. In questo contesto, i tecnici continueranno a essere tutori dell’apparenza, senza intaccare la sostanza delle cose, costretti – come Jakob – a comperare un’azalea quando i cadaveri cominciano a puzzare.”
In questo presente improvviso in cui le azalee abbonando nelle case di riposo, negli ospedali, nelle carceri, nei centri di internamento per migranti, nelle istituzioni totali tutte le parole di Franca Ongaro e Franco Basaglia rimbombano. Oggi, di nuovo, da capo. Ma oggi, di nuovo da capo, le artiste e gli artisti possono aiutare a rompere il cerchio.