pandemie locali in un presente improvviso
carlo caprioglio, martina millefiorini, pantxo ramas, silvia ribecaPandemie Locali è una raccolta di interviste sulla pandemia Covid19, realizzati a distanza, per connettere punti di vista, luoghi ed esperienze sul limite di questo improvviso presente. L’idea nasce dall’esigenza e dal desiderio di condividere dubbi e domande per comporre una riflessione collettiva che mostri le ambivalenze, le complessità e le possibilità del lungo tempo che stiamo vivendo. Salute, territorio, mutazioni, istituzioni, solidarietà, migrazioni, cooperazione sono solo alcune delle parole che ricorrono nelle interviste che abbiamo raccolto con chi ha provato a pensare con noi, oltre il senso di impotenza del lockdown.
Confinati in un tranquillo quartiere romano ci siamo trovate a interrogarci sul “che fare” in maniera fin troppo immediata. Come possiamo costruire una vita activa intrappolate nello spazio privato della casa? Come possiamo agire e parlare se il nostro quotidiano è slegato dall’interazione sociale, se è negata la prossimità, se non è più possibile riflettere collettivamente? Come possiamo salvarci, se non insieme?
Le tecnologie rompono immediatamente questa polarizzazione tra pubblico e privato, tra prossimità e distanza. Abbiamo cominciato a chiacchierare sempre di più, tra i balconi, in fila al supermercato e sulle piattaforme digitali, a porre domande, a scoprire punti di intensità che hanno cominciato a ricamare un territorio sconosciuto. All’improvviso la quarantena è diventata una pratica attiva di esplorazione, invece che un esercizio passivo di obbedienza. Ci siamo ricordate di quanto scrivevano Philippe Pignare e Isabelle Stengers su quanto sia importante scrutare i fondali e non solo l’orizzonte per muoversi in territori a noi sconosciuti.
«Sounders of the depths may well stay at the front of a ship, but they do not look into the distance. They cannot announce directions nor choose them. Their concern, their responsibility, the reason for the equipment they use is the rapids where one can be smashed to pieces, the rocks that one can hit, the sandbanks where one can run aground. Their knowledge stems from the experience of a past that tells of the danger of rivers, of their deceptive currents, of their seductive eddying. The question of urgency poses itself for the sounder of the depths as it does for everybody else, but his or her proper question is and has to be: ‘can one pass through here, and how?’ – whatever the urgency, whatever the ‘we have to’ or the direction chosen may be» (Capitalist Sorcery, Breaking the Spell, p. 8, 2011).

Giornaliste dilettanti, film-maker incompetenti, community manager ipotecnologici, ci siamo quindi messe ad ascoltare, registrare, montare e distribuire alcune conversazioni. Ci siamo intrufolati in case amiche e sconosciute nel tentativo di comporre un’esperienza comune, una continuous experience: saperi situati che ci hanno aiutato a decifrare quali pratiche politiche impercettibili stiano emergendo in questo contesto. Attraverso piattaforme digitali abbiamo discusso, con dei plug-in di software libero abbiamo registrato, con pacchetti privati abbiamo fatto editing casalinghi delle parole che raccoglievamo. E poi abbiamo cominciato a lasciarle libere di circolare in rete, scoprendo di nuovo tutte le difficoltà del navigare a vista, tra algoritmi dei grandi social network e difficoltà materiali delle reti indipendenti di discussione e produzione digitale.
Allo stesso tempo abbiamo trovato e popolato uno spazio di collaborazione con Radio Fragola, progetto della cooperativa sociale La Collina, che nasce nel contesto delle radio libere degli anni Ottanta e in particolare nel processo basagliano di emancipazione nella salute mentale, e con Entrar Afuera, collettivo di ricerca militante translocale che si occupa da tempo del rapporto tra salute e politiche pubbliche. Queste collaborazioni sono il modo in cui quotidianamente sfuggiamo al confinamento, produciamo legami e processi di cura, discutiamo su chi intervistare, cosa domandare, come fare i montaggi. Ci permettono di costruire uno spazio collettivo di discussione, trascrizione ed edizione. E sono anche la comunità che si attiva per sottotitolare e tradurre le interviste, strumento fondamentale per aprire la nostra discussione ad altre e altri. Perché solo curiosando e pensando insieme sapremo forse affrontare il mondo che ci aspetta alla fine della pandemia.
Curare la democrazia
In questi mesi abbiamo rinunciato a molte libertà, collettive e personali. La risposta al perché inteso come “per cosa” ci è chiara: si tratta di prendersi cura l’uno dell’altro e di farlo insieme, accettando le responsabilità e costruendo insieme una “capacità di far fronte” a ciò che potrebbe succedere. Ma trovare la risposta all’altro perché, per quali ragioni, è più difficile. Provando a comprendere cosa ci ha portato alla situazione attuale, proviamo a partire da una riflessione critica e collettiva sulle pratiche di cura. Quando parliamo di “salute” è utile distinguere tra “cura” e “sanità”. Non tanto per illustrare la dicotomia tra i due termini, ma per riconoscere la complessità con cui vengono mescolati questi ordini di cose: da una parte la sanità come un’organizzazione sociale e tecnica, costruita su pratiche e forme di conoscenza. E dunque il sistema sanitario come un attore essenziale. Però, allo stesso tempo, un attore che è parte di una ecologia della cura intesa come processo aperto, complesso, interdipendente e vivo, con modi di agire sociali e singolari.
Se guardiamo solo alla cura come sistema sanitario, la nostra attenzione si focalizza subito sugli ospedali, quegli spazi che considerano i nostri corpi come oggetti passivi su cui devono agire conoscenze di tipo tecnico, di tipo esclusivo (per esempio: “io so, tu no”) e squisitamente oggettive. Basta leggere i dibattiti tra esperti di virologia, pneumologia o epidemiologia per capire quanto possano essere utili le diverse prospettive se solo venissero a parlare assieme per affrontare una situazione complessa (e quanto possano invece essere pericolose quando si perdono in solipsismi!). E dunque è necessario, sempre riconoscendo la dedizione e la generosità degli operatori sanitari, cominciare una conversazione sulle dinamiche sociali e politiche della salute.
Il nostro sistema sta crollando. E sta crollando perché i processi di cura si svolgono principalmente in strutture biomediche (come gli ospedali), dove le persone vengono trattate come pazienti invece che come cittadini e dunque esposte al contagio, per esempio nelle residenze per anziani, in cui si concentra la parte di popolazione politicamente e fisicamente più vulnerabile, o per le persone, negate dalle istituzioni e confinate in centri di detenzione per migranti o nelle carceri.
Se parliamo di investimenti economici e, soprattutto, di legittimazione culturale, il modello europeo contemporaneo tende molto di più alla “sanità” che alla “salute”. Le contraddizioni che questo sistema produce sono drammaticamente ovvie: nei luoghi in cui manca un forte sistema di assistenza primaria sociale e sanitaria, comprensiva di medici di base, assistenti sociali e centri di cura locali che hanno familiarità con le vite dei cittadini (e che hanno il potere e la libertà di prendere decisioni all’interno dei loro sistemi), non solo i sistemi di assistenza secondaria (ospedali e unità di cura intensive) sono sovraccarichi, ma inoltre le criticità tendono a ripresentarsi nei mesi successivi. È soprattutto qui che il sistema sanitario pubblico scopre i problemi quando sono già diventati urgenti; o quando, come spiega Jasmine McGhie, ci si ritrova in un momento di emergenza pandemica. Valga d’esempio la fragilità dei sistemi di assistenza primaria nelle aree europee più colpite dal covid – soprattutto Milano e Madrid –, dove chi ha sintomi gravi non ha altra scelta se non andare all’ospedale; e proprio in questi luoghi, il sistema sanitario ha così poca familiarità con il territorio che risulta difficile un’azione pro-attiva e coordinata con altri attori istituzionali, locali e le reti dei territori. Allo stesso tempo proprio in questi luoghi, è la virtuosità degli operatori sanitari ad essere continuamente sminuita dalla politica.
Per evitare un nuovo collasso dei sistemi sanitari non basta aumentare le unità di terapia intensiva negli ospedali; è necessario coordinare gli sforzi medici con le dinamiche sociali per sfruttare le energie e i saperi situati nei singoli territori. Come dice Franco Rotelli, bisogna “saltar fuori”. Dobbiamo riflettere su come organizzare le diverse aree di competenza, le infrastrutture, le culture, le risorse e le biografie sia degli “esperti” sia delle esperienze comunitarie e istituzionali, per rispondere quotidianamente alla crescente fragilità della nostra società. La decentralizzazione territoriale e la distribuzione di conoscenze e risorse sono elementi chiave per guarire, perché è necessario un sistema di salute capace di affrontare le disuguaglianze della vita in modo trasversale. Sono le diseguaglianze a determinare la vita delle persone (il tipo di lavoro che abbiamo, la casa in cui abitiamo, l’assenza di uno o entrambi, sono il nostro rischio di contagio), ma stabiliscono anche il nostro “diritto alla salute” (formalmente: avere i documenti necessari; materialmente: essere a conoscenza o meno dei propri diritti).
Detto in altri termini, la privatizzazione della sanità non si limita alla mercificazione del sistema sanitario che ci priva del diritto all’accesso a un servizio universale e di qualità. Privatizzazione significa anche individualizzare la responsabilità della cura. È essenziale rompere questo schema individualizzante per costruire un’alleanza fra la società e le sue istituzioni. Ma cosa possiamo fare? Primo, bisogna sistematizzare le diverse articolazioni del welfare affinché le istituzioni possano comunicare fra di loro, scambiarsi conoscenze. E poi va lasciato spazio anche ai saperi sociali, includendoli nel processo condiviso della definizione di modi di vivere e curare che tengano conto della singolarità di ogni territorio.
Allo stesso tempo dobbiamo riconoscere le complessità e la forza delle conoscenze tecniche e trovare dei modi per democratizzarle. Quando conoscenza è sinonimo di potere l’unico esito possibile è una forma di governo (più o meno filoscientifico) che gestisce le incertezze e una popolazione che obbedisce; proprio l’opposto dello slogan zapatista: comandare obbedendo. Ma se pensiamo invece alla conoscenza come a qualcosa che si relaziona con ciò che è sconosciuto, il rischio diventa un terreno comune che si può affrontare meglio insieme, democratizzando i saperi tecnici.
Più che nel virus, il problema risiede nel nostro modo di vivere, nelle nostre interdipendenze. Vivere con il virus è un’opportunità per ripensare il nostro modo di vivere come società. Ci serve un’altra immaginazione politica, capace di creare sinergie e superare il divario tra “esperti” e “pazienti”, capace di creare un rapporto democratico tra gli attori pubblici e sociali. Questo si traduce nell’affrontare la logica del profitto del mondo in cui viviamo tramite altre imprese, cooperative ed etiche, come le tante che in questi mesi stanno contribuendo con determinazione ad affrontare i problemi. E dunque questo si traduce anche nell’affrontare quei soggetti di potere, istituzionali o privati, che in un momento così critico non hanno esitato ad abusare del proprio potere.
E infine per costruire un’altra immaginazione politica bisogna mettere in dubbio la nostra stessa etica e calarla nel momento presente; etica che ora più che mai va ripensata perché le condizioni e le potenzialità delle nostre azioni sono profondamente cambiate in questi mesi. Le pratiche di ACT UP, il movimento di persone affette da AIDS nata negli anni Ottanta, ci possono servire da riferimento: non siamo oggetti, “non siamo pazienti, non abbiamo pazienza”. Vogliamo sapere e vogliamo essere protagonisti del nostro processo di guarigione, perché siamo l’informazione necessaria per combattere il virus, noi siamo coloro che possono aprire una nuova strada. ACT UP ha illuminato questa strada, in mezzo ad innumerevoli difficoltà e lutti, con tutte le complessità che comporta la responsabilità critica: perché nel momento in cui si svelano le contraddizioni, dobbiamo dedicarci con forza a reinventare il mondo, il nostro mondo.
Questo momento ce lo impone. Dobbiamo immaginare politiche pubbliche e pratiche comuni che possano realizzare queste possibilità e adattarle al nostro tempo: un’alleanza tra conoscenza, esperienza e risorse. Se non lo facciamo, la logica neoliberale di produzione ricomincerà subito a trovare modi di sfruttamento ancora più pericolosi; e torneremo ad essere meri tramite di contagio, agenti inconsapevoli che hanno bisogno di controllo, oggetti passivi delle politiche di salute pubblica.
Migrazioni, confinamento e libertà
Oltre le persone che hanno sofferto e muoiono ogni giorno nella pandemia, le misure di contenimento del contagio hanno imposto rinunce a libertà individuali e collettive fondamentali che non avremmo mai immaginato di dover affrontare. Veri e propri lutti – nel senso indicato da Élisabeth Lebovici – legati alla perdita delle forme quotidiane in cui siamo abituati a esprimere la nostra socialità, costretti ad affidare la cura delle nostre relazioni sociali e affettive agli strumenti tecnologici e alle piattaforme digitali. Così, per la prima volta, molti di noi si sono sentiti investiti della responsabilità di prendersi cura degli altri, a partire dai soggetti più vulnerabili. La protezione della comunità è divenuta all’improvviso una responsabilità individuale prima ancora che collettiva.
Ma come possiamo immaginare politicamente, stretti nel lutto personale e sociale che tutti viviamo? Superato il senso di smarrimento di fronte al precipitare degli eventi, lo sgomento quotidiano prodotto dalla crescita esponenziale del numero dei contagiati e delle vittime, fra le domande che si sono poste vi è stata: di quale comunità ci stiamo prendendo cura? Chi sono gli altri e le altre verso cui – per senso di responsabilità e solidarietà – ci isoliamo, restando a casa e rispettando le regole per contenere il contagio? Riflettere sulle restrizioni ai diritti fondamentali delle persone migranti in questo periodo ci aiuta forse a cogliere il carattere differenziale delle misure dell’emergenza sanitaria, ovvero la natura discriminatoria e violenta del senso di comunità che si sostiene di tutelare. Se la quarantena, l’isolamento, il distanziamento sociale rappresentano i dispositivi chiave di prevenzione del contagio, giustificati dalla necessità di garantire la salute pubblica, evitare il collasso del sistema sanitario e proteggere le persone più fragili, per le persone migranti questi termini hanno assunto spesso un significato profondamente diverso.
Nel contesto del lockdown, e nelle fasi successive dell’emergenza sanitaria, le persone migranti hanno subito per intensità, forme e senso, una compressione dei diritti che non ha niente a che vedere con quella vissuta dai cittadini – o comunque da chi occupa una posizione sociale, economica e giuridica che garantisce stabilità e quote maggiori di integrazione nel tessuto sociale. Declinate nel campo delle politiche migratorie, le misure di prevenzione del contagio non hanno perseguito finalità di protezione della salute: al contrario, la limitazione della libertà di movimento è stata spesso imposta alle persone migranti contro i loro stessi interessi di autotutela. La pandemia ha così disvelato chiaramente il razzismo istituzionale che dà forma alle politiche migratorie, italiane e non solo, legittimando la marginalizzazione sociale e il confinamento di intere fasce di popolazione sulla base dello statuto di (non) cittadinanza.
Basta volgere lo sguardo alla gestione dei Centri per il rimpatrio (Cpr) nel corso della pandemia. Durante il lockdown, le autorità non hanno adottato alcuna misura specifica per prevenire il contagio all’interno dei centri di detenzione, né tantomeno hanno sospeso le procedure di trattenimento. Anzi, approfittando dell’emergenza è stato esteso a tutti i Cpr il divieto – prima vigente di fatto solo in alcune strutture – di utilizzare i telefoni personali da parte delle e dei reclusi. In una situazione in cui chiunque di noi ha sperimentato quanto sia importante poter comunicare con l’esterno, mantenere relazioni affettive e conoscere cosa accade al di fuori (delle nostre case! per chi ne ha una…), non è difficile comprendere come tale decisione abbia esasperato l’isolamento delle persone trattenute e la percezione della misura di restrizione della libertà personale come essenzialmente punitiva, priva di alcuna giustificabilità razionale per chi ne fa esperienza.
La circostanza che il trattenimento non sia stato messo in discussione neppure durante la pandemia ci dice molto sulla natura della detenzione amministrativa e sulla posizione che occupa oggi nell’ordinamento giuridico italiano. Non vi è, infatti, nulla di eccezionale nella limitazione della libertà personale che si realizza nei Cpr. Luoghi istituzionali, questi, che non configurano una eccezione permanente inscritta nei meccanismi ben rodati dello stato di diritto, né tantomeno una zona di anomia, come a lungo da molti sostenuto. Nell’emergenza, la reclusione sine crimen degli stranieri si è mostrata in tutta la sua ordinarietà, comodamente inserita negli equilibri dello stato di diritto.
Il confinamento pandemico ha significato così per molte persone migranti una maggior esposizione al contagio. È infatti la stessa condizione materiale di costrizione all’interno di luoghi che non consentono il distanziamento fisico a mettere a rischio la salute, violando i diritti costituzionali delle persone recluse; e ciò, a prescindere dalle ragioni giuridiche che legittimano la misura. Una condizione questa che accomuna la situazione di chi si trova ristretto in un centro per il rimpatrio a quella dei migranti costretti all’interno di una molteplicità di luoghi diversi in cui la libertà personale e di movimento è confinata.
Basti pensare agli insediamenti informali – i c.d. ghetti -, disseminati nelle campagne italiane, o alle tendopoli della protezione civile in cui sono costretti a vivere i braccianti migranti. Lavoratori essenziali che, come racconta Martina Lo Cascio, nella pandemia si sono trovati spesso esclusi dall’accesso alla medicina territoriale, nonché dalle misure emergenziali di sostegno al reddito, a causa della condizione di irregolarità nel soggiorno. Lavoratori essenziali che assicurano il funzionamento della filiera agroalimentare italiana, dai campi agli scaffali di quei supermercati che, durante il lockdown, hanno rappresentato per molti non solo il principale luogo dove fare acquisti di beni primari, ma anche una via di fuga dall’isolamento delle mura domestiche.
Il confinamento, l’esclusione sociale e l’esposizione al contagio accomunano l’esperienza pandemica di molte persone migranti che vivono in Italia (e altrove) a quella delle migliaia di richiedenti asilo bloccati alle frontiere esterne dell’Unione Europea. È quanto avviene, come racconta Carmen Dupont, sulle isole greche dell’Egeo dove, alla violenza istituzionale di campi profughi sovraffollati, dove non è neppure garantito l’accesso quotidiano all’acqua corrente e all’elettricità, si aggiunge la violenza dei gruppi neofascisti, nella colpevole indifferenza delle istituzioni europee.
Durante il lockdown – e in vario modo nelle fasi successive della pandemia – la libertà di movimento si è rivelata come una questione tutt’altro che astratta, che dipende dalle effettive condizioni di possibilità del suo esercizio concreto. In altri termini, gli ostacoli e le limitazioni alla mobilità costituiscono sempre e inevitabilmente una negazione di questa libertà. Nel presente pandemico facciamo tutte – a vario modo – esperienza della negazione della libertà di muoverci, consapevoli che il significato di questa privazione sia la tutela di noi stessi e degli altri. Come ci spiega Enrica Rigo, infatti, la libertà di movimento non significa potersi muovere per le strade del proprio quartiere, secondo traiettorie ridisegnate di volta in volta dalle normative di emergenza del governo, per andare al lavoro o al supermercato. Libertà di movimento significa libertà di scegliere quando e dove andare, e possibilmente come: in altri termini, soddisfare i propri bisogni, perseguire i propri desideri. Ed è proprio questa libertà ad essere quotidianamente negata alle persone migranti da quei confini – materiali, giuridici e amministrativi – che selezionano e organizzano gerarchicamente la mobilità umana, anche e soprattutto attraverso il confinamento all’interno di spazi di reclusione e abbandono.
Per le persone trattenute nei Cpr, così come negli hotspot e sulle “navi quarantena”, o ancora nelle tendopoli o nelle strutture di accoglienza, trasformate in centri chiusi a causa dell’emergenza sanitaria, la limitazione della libertà personale e di movimento ha significato ancora una volta l’esclusione dai diritti: l’esclusione da quella comunità che le misure di prevenzione del contagio si propongono di proteggere. Una condizione, questa, che accomuna nel presente pandemico quelle che Giovanna Del Giudice ha chiamato le istituzioni totali dell’attualità. Luoghi istituzionali molto diversi fra loro ma con una storia condivisa, fatta di segregazione violenta, di separazione fisica e simbolica dal resto della società – sana, normale e normativa – e dall’esercizio di pratiche coercitive che si intensificano nell’emergenza.
Cpr, hotspot, centri di accoglienza e tendopoli per braccianti migranti, ma anche carceri, REMS e case di cura per anziani, sono solo alcune delle istituzioni totali dell’attualità di cui la pandemia sta esponendo le insostenibili contraddizioni. Luoghi istituzionali prodotti da politiche di disciplinamento della libertà di movimento, di emarginazione dell’alterità, di confinamento della devianza non produttiva, che contribuiscono a riprodurre quotidianamente le gerarchie dell’organizzazione sociale. Ripensare e attualizzare il concetto di istituzioni totali in questa situazione, rompendo per esempio la distinzione di senso e valore tra centri per il rimpatrio e residenze per anziani, non è solo un esercizio teorico, ma può assumere il senso di un esercizio pratico utile per cogliere l’opportunità concreta che la pandemia ci offre. A poco più di quarant’anni dalla abolizione dei manicomi, è forse questa un’inattesa occasione per rilanciare la lotta per abbattere le mura e scardinare l’impalcatura valoriale, discorsiva e normativa che sorregge le istituzioni totali dell’attualità.
Come ci ha detto Jakob Berkson di Alarm Phone, questo contagio globale, composto da tante pandemie locali, ci può aiutare a porre al centro delle nostre pratiche quotidiane questioni a lungo trascurate, intrecciarle tra loro e innescare nuove possibilità di trasformazione, affinché non ci sia modo per tornare a una normalità. Perché la normalità è il problema. D’altro canto, rispetto ai Cpr e agli altri luoghi di negazione della libertà di movimento, la direzione è già segnata da decenni di lotte quotidiane delle e dei migranti.
Un futuro per la maggioranza deviante
Scombussolati da quanto succedeva e dalle incerte riflessioni raccoglievamo, ma anche spinti a continuare a pensare proprio dalla speranza vedersi dischiudere un altro futuro fuori dalla normalità, alla fine del primo confinamento di una cosa eravamo certi: anche se le misure straordinarie di isolamento sociale sono finite, non è finita la pandemia.
Non è finita a livello globale, perché non ci sono mai stati tanti morti al giorno nel mondo. Non è finita perché non siamo tornati indietro e sono cambiati (chissà per quanto?) i modi quotidiani di relazione: il distanziamento purtroppo non solo fisico ma anche sociale, la diffidenza dell’altro, la voglia di starsene chiusi in casa, la paura della pelle e la strana incertezza dell’eros sociale. Ma, soprattutto, non è finita la pandemia perché non c’è un “evento” che possa concluderla. Di più, non crediamo possano essere gli “eventi” a produrre nuove possibilità, nuove alleanze e nuove lotte. Al contrario, per affrontare le sfide che la pandemia ha posto, non esiste altra via se non quella di inventare nuove pratiche.
Nel mondo pandemico, ovvero quello che abbiamo e avremo tra le mani d’ora in poi, il presente è incerto, continuamente ridefinito, e non si possono fare programmi. Siamo invischiati in un presente continuo, e questo è il problema “con cui ci tocca stare”, per parafrasare Donna Haraway. Allora ci serve forse riflettere sulle caratteristiche di questo tempo improvviso, indeterminato, mai fermo e senza “eventi”, per prenderci cura del mondo.
Negli ultimi quarant’anni, finito il tempo del futuro leninista dell’avvenire da inseguire, la nostra generazione si è costituita schiacciata tra due futuri imminenti e profondamente diversi: un futuro anteriore da imitare e un futuro prossimo sempre pronto a crollarci addosso. Da una parte il futuro anteriore delle lotte che negli anni Settanta in Europa erano riuscite a mettere in crisi le istituzioni totali moderne e del fordismo (dai manicomi alle fabbriche, passando per la scuola, l’università, etc), ma pure quelle che in America (latina e anglosassone) negli anni Ottanta e Novanta avevano aperto un conflitto radicalmente biopolitico contro il neoliberalismo:dalle lotte di Actup sull’AIDS alle sollevazioni del 1992, sia quelle indigene dei Cinquecento anni dalla Conquista sia quelle afroamericane “proto Black Lives Matter”, per arrivare poi allo zapatismo come risveglio globale del desiderio di un altro mondo.
Dall’altra parte, il futuro prossimo della nostra generazione è stato determinato dalla vertigine della precarietà e l’affermarsi inesorabile e quotidiano del realismo capitalista nella nostra vita personale e politica: basti pensare al lavoro “cognitivo” come messa a valore del desiderio, dove esplodevano e continuano a esplodere le sottese e accumulate differenze di classe, di genere, di razza tra chi può o meno permettersi il rischio di rifiutare “quel” lavoro di merda; oppure alla casa (no, purtroppo non al “diritto alla casa”), ovvero a quel modello intergenerazionale di indebitamento che ha permesso al capitale di riprendersi dai figli quei soldi che la generazione fordista aveva strappato ai padroni, facendo dell’affetto ‘familiare’ un oggetto di interazione finanziaria, il debito appunto; e poi, ancora, all’educazione forzata nelle logiche delle proiezioni finanziarie e del debito personale degli studenti,alla precarietà degli equilibri ambientali, le violenze materiali, quotidiane e interstiziali di una società, come la nostra, razzista e patriarcale. Sempre sulla soglia della catastrofe.
Invece ora siamo immersi in un presente continuo in cui la catastrofe può essere parte del nostro quotidiano in ogni momento. Siamo oltre la soglia. Nic Beuret ci diceva proprio che oltre certe soglie non ci sono più eventi in grado di cambiare il mondo: in grado di fermare il cambio climatico o evitare la pandemia. Il mondo è irrimediabilmente danneggiato e bisogna pensare nuove forme della politica, fuori dalla logica degli eventi che cambiano il mondo, e dentro una strategia radicale di invenzione di nuovi modi di vivere in comune.
Le strade esplose in questi mesi negli Stati Uniti, viste nel moltiplicarsi degli occhi meccanici che riproducono il mondo, lette negli articoli che narrano gli avvenimenti e profilano analisi, tradotte e vissute nel tentativo di tornare in piazza pure in Europa, forse ci dicono anche questo. Perché non è un nuovo evento a produrre la rivolta, bensì il ripetersi continuo di ciò che sempre succede: il senso inesorabile di un tempo senza trasformazioni. Forse allora per prendersi cura radicalmente del mondo bisogna partire dal mondo che c’è: non basta distruggere quello vecchio per immaginarne uno nuovo.
“De-fund the police!”, gridato nelle strade degli Stati Uniti d’America in quest’ultima incandescente estate, ha ribadito con forza che solo attraverso l’isolamento fisico e sociale delle pratiche razziste, sia istituzionali che micropolitiche, e attraverso altre politiche pubbliche radicalmente democratiche sarà possibile creare nuovi modi di vita in comune. Defund the police richiama immediatamente un contropotere: portare quelle risorse altrove e attivare energie per sostenere un altro modo di vivere in comunità e un altro senso della vita in comune.
L’immaginazione del mondo diventa dunque un problema diverso da quello che la nostra educazione sentimentale e politica ci ha insegnato finora. Non più la produzione del futuro come un avvenire, altro da ciò che abbiamo – fore-coming – ma la riproduzione del presente come divenire divergente, a partire da ciò che abbiamo – be-coming. Durante il confinamento, Raul Sanchez Cedillo ne rifletteva con ironia e speranza: siamo come il gatto di Schrödinger, chiusi nelle nostre case, e tocca a noi non essere morti quando si aprirà la scatola.
Bisogna scioperare, diceva Raul, perché questa pandemia ha svelato che le dinamiche di profitto e accumulazione del capitale si possono dare solo se “la vita sopravvive”, mentre i processi di sfruttamento organizzati nella produzione contemporanea sono materialmente antagonisti alla vita. Oltre la biopolitica, la dimensione necropolitica al centro del conflitto pandemico tra capitale e salute altro non è che il generalizzarsi di un modello che sempre è stato la norma fuori dalla società bianca, borghese, eteronormativa e patriarcale, ovvero fuori da quel pezzetto di Europa che riproduce il proprio privilegio attraverso la morte della vita altrui. Eppure siamo noi (con i nostri privilegi e le nostre subíte oppressioni) a riprodurre il mondo. E dunque agire invece questa riproduzione come divenire divergente vuol dire “scioperare”: non solo come rifiuto del mondo che c’è, ma soprattutto come riappropriazione del nostro tempo e della nostra natura, nel mondo che abbiamo.
Di nuovo, fuori dalla logica degli eventi e dentro una strategia radicale di invenzione di nuovi modi di vivere, possiamo affermare due piani di consistenza basici per un’altra organizzazione della vita in comune: la centralità del “settore zero”, ovvero di chi costruisce nel proprio lavoro di cura e riproduzione sociale le possibilità della vita; e la necessità política ed etica di un “reddito di emancipazione” per tutti, garantito dalla fiscalità generale ovvero da un sistema statuale che sostiene l’autonomia e il protagonismo attivo della società nel prendersi cura di se stessa.
Negli ultimi anni, anzi negli ultimi decenni, queste strategie si sono più volte affermate materialmente, fuori dalle dinamiche maggioritarie del potere: esperimenti, narrazioni e immaginazioni che hanno costruito altrove quotidiani. Oggi i piani più articolati di questa strategia si svelano almeno su tre livelli. Possiamo partire dalle strategie dei femminismi globali contro la violenza maschile e maschilista e per l’autonomia e l’emancipazione. Secondo, le pratiche di violazione della linea del colore che emergono continuamente nell’esercizio del diritto di movimento e nelle occupazioni dello spazio pubblico, negli ultimi mesi, ovviamente, Black Lives Matter. E, infine, le campagne dei movimenti ecologisti e l’agire politico della natura stessa come rifiuto radicale e “altro dall’umano” della distruzione di Gaia: rifiuto che implica di per sé altre logiche e altre logistiche della vita.
Fuori dalla politica degli eventi, la possibilità è quella di produrre una strategia come intersezione di piani. Uno dei piani da cui proviamo ad agire è nel rifiuto della produzione delle persone come oggetti diagnosticati in quanto diversi, nella denuncia offensiva contro ogni istituzione totale, ma soprattutto nell’affermazione di una pratica di emancipazione della differenza che affermi oggi più che mai che questa possibilità divergente può essere agita solo dalla maggioranza deviante, nelle parole di Franco Basaglia. Una maggioranza fuori dalla normalità, una maggioranza costituita nella propria molteplice differenza, una maggioranza capace di agire insieme per “prendersi cura del mondo”.
Prendersi cura del mondo
Crediamo che, per prendersi cura del mondo, bisogna saper abitare le soglie tra il passato, il presente e il futuro. In primo luogo, bisogna prendersi cura del passato, ovvero analizzare e intervenire sui problemi strutturali della nostra organizzazione sociale. Lucia Delgado della Piattaforma de Afectados por la Hipoteca a Barcellona usava una immagine molto efficace. Se siamo state in grado di frenare la curva del contagio attraverso una pratica di cura collettiva di fronte al pericolo, dobbiamo prenderci la responsabilità di frenare un’altra curva che da tempo violenta la nostra società: la curva degli sfratti, degli sgomberi e la violazione del diritto all’abitare in nome dei profitti della finanza globale. Allora prendersi cura del passato significa comprendere le dinamiche strutturali del mondo neoliberale per trasformarle. Produrre una campagna di comunicazione e intervento trasversale e sussistenziale come scrive Gerald Raunig, perché prendersi cura del passato significa soprattutto non lasciare indietro nessuno.
Prendersi cura del presente significa, invece, trasformare questa pratica di critica in intervento istituente. Nelle interviste di Pandemie Locali, Sandro Mezzadra ci ha offerto un’immagine molto utile per affrontare il presente come tempo non determinato, ma da determinare, prendendo ad esempio la logistica delle piattaforme. Da una parte la critica ci permette di leggere l’emergere di nuovi modi di governance della produzione, per esempio nel ruolo centrale che le piattaforme digitali hanno avuto nell’organizzare la vita durante il lockdown e che avranno nel sostenere una certa continuità di “immunità” nella permanente pandemia. Allo stesso tempo, però, questo nuovo piano di organizzazione sociale è assolutamente determinato dalla produzione comune del “valore” organizzato nelle piattaforme. Allora possiamo tracciare qui un piano di conflitto molto chiaro e capire se, in questo farsi comune della produzione sociale, riusciremo ad organizzarci per creare le istituzioni pubbliche e del comune che ci permetteranno di godere insieme di ciò che è comune, o se impotenti, soli e disorganizzati, ne verremo nuovamente espropriati. Prendersi cura, dunque, come pratica radicale di comprensione e trasformazione del presente.
Infine per prendersi cura del mondo dobbiamo prenderci cura del futuro, ovvero inventare concretamente modi sociali di organizzazione della vita in comune. Andrea Ghelfi e Martina Martignoni compongono il loro progetto di agricoltura militante con la critica della produzione alimentare globale. Se l’economia globale del cibo si basa sulle condizioni di ricatto e mobilità della manodopera, sulle catene logistiche di circolazione delle merci e infine sull’oligopolio di poche corporazioni, la pandemia mette in crisi questo schema. Il protagonismo e il conflitto di chi lavora e gli effetti logistici delle regole globali di salute pubblica producono infatti una grande instabilità finanziaria nei cicli di debito e profitto delle corporazioni. Fuori dalla politica degli eventi, la possibilità di affermare un’altra vita in comune passa certo dalle lotte nel presente contro questi modi di sfruttamento, ma anche dal cercare il nostro futuro inventando modi di transizione capaci di sostenere altre forme di riproduzione sociale (del cibo, in questo caso): nell’organizzazione del lavoro comune come cura della terra; nella globalizzazione della solidarietà sociale con tutti quei soggetti che partecipano alla produzione, ma sono esclusi dalla distribuzione; nel riconoscimento della natura, in quanto vita, come agente politico e come portatrice di diritti.
Siamo alla fine di quello che Marcelo Exposito ha chiamato il lungo ciclo neoliberale “contro la vita”, cominciato certo nella configurazione di una specifica governamentalità, ma soprattutto nell’accumularsi e dispiegarsi di modi di vita in comune, radicalmente democratici. Nel chiudersi del ciclo neoliberale, queste pratiche, esperienze, sensibilità sono certo disorientate, ma costituiscono il piano di consistenza da cui poter affrontare la situazione attuale. Questo elemento è al centro della riflessione proposta da Toni Negri nel cercare di immaginare come questa situazione possa diventare opportunità di affermazione del comune: comune come inchiesta e comune come responsabilità.
Pensare il comune come inchiesta in questo momento implica immediatamente confrontarsi con la dimensione dei saperi come produzione comune, ma anche come strumento di trasformazione: saperi costruiti nell’incontro e nella discussione sui modi per affrontare la crisi, sulle reti di mutuo appoggio che sono sorte in questi mesi, sulle strategie per scardinare la verticalità della scienza – come negli esperimenti comunicativi di Dinamo Press, ci racconta Alberto De Nicola; ma allo stesso tempo l’inchiesta non come raccolta, ma come articolazione di passi e strumenti ulteriori, di nuovo nell’incontro, nel confronto, nella mutua responsabilità, intrappolati come siamo nei problemi, coscienti di poter costruire strategie, ci dice Valery Alzaga.
In secondo luogo pensare il comune come responsabilità significa comprendere la cura come pratica che tiene in considerazione le forze che gravitano, interagiscono, si sovrappongono e scontrano nella materiale istituzione del comune, per costruire insieme la responsabilità come capacità di rispondere alla complessità, ai problemi. Bernd Kasparek da Munich e Marta Malo da Madrid, ci hanno aiutato a riconoscere i processi di privatizzazione della vita pandemica e pensare come le pratiche militanti possano rimettersi in gioco, oltre i rituali, nelle contraddizioni di oggi. Una riflessione che ci siamo portati dietro ogni giorno durante il confinamento quando abbiamo cominciato ad attraversare quartieri, case, centri sociali e supermercati per contribuire alla rete di mutuo appoggio che il centro sociale del nostro quartiere, CSA Astra, stava costruendo in una mobile complicità con altri soggetti, istituzionali e informali, religiosi e militanti, spazio aperto di rete oltre le identificazioni (strategiche o meno) di movimento. Uno spazio di sperimentazione e contraddizione che cercava di rompere le separazione tra privato e pubblico, riflessione e pratica. Ovvero di porre le pratiche e le riflessioni dentro le contraddizioni e le urgenze, dentro un’accelerazione privatizzata della violenza patriarcale, all’interno delle mura domestiche del confinamento. E pure nell’affermarsi di inaspettate complicità di vicinato, territorio e sorellanza,, come spiegavano le compagne di Lucha y Siesta.
Queste e altre voci hanno accompagnato le nostre pratiche durante la prima ondata della pandemia. Sull’orlo del presente ancora oggi improvviso che viviamo, crediamo sia importante continuare a immaginare e dare concretezza alle riflessioni, sempre più immersi in un mondo in cui curare significa prendersi cura della vita come progetto comune e collettivo. E in cui prendersi cura del mondo significa prendersi cura di questo mondo qua: un mondo pandemico, un mondo danneggiato. Il migliore dei mondi possibili visto che è l’unico che abbiamo.