La Rosa che c’è
Il parco culturale di San Giovanni sorge tra i padiglioni ristrutturati e abbandonati del vecchio manicomio. Tra le facoltà dell’Università di Trieste e il Dipartimento di Salute Mentale, si nascondono paesaggi artistici e imprese di cooperazione sociale.
Il giardino di San Giovanni, curato dalla Cooperativa Agricola Monte San Pantaleone, ospita uno dei roseti più importanti d’Europa con cinquemila differenti rose, segni concreti della meraviglia che mantiene viva la memoria terribile della violenza istituzionale. Nel vecchio padiglione dei “tranquilli”, la cooperativa Lister ha inventato una sartoria sociale: spazio di riciclo e rivalorizzazione dove ombrelli rotti e vecchi tessuti trovano altre forme di espressione. Rituale della deistituzionalizzazione per ridare dignità a oggetti e soggetti dimenticati.
Il parco è un simbolo, di cura e diversità, e allo stesso tempo un luogo materiale di benessere. Un benessere affermato ogni giorno, tenendo insieme culture e generazioni della città, in quello che fu una volta il manicomio, e per rinnovare il tentativo comune di trasformare il reale.
Il Diritto al Bello
Già nel 1973 Franco Basaglia e Michele Zanetti, suscitando polemiche e dibattito in città, arredarono il manicomio ancora abitato con mobili di alto design, per riaffermare la dignità delle persone rese cose nel manicomio, e affermare un altro punto di vista in questa storia in cui la soggettività era negata.
Fin dagli anni Ottanta la cura dei luoghi ha voluto affermare il diritto alla bellezza come pratica concreta di altre forme della cura e della cultura per le persone. Il design degli spazi realizzato da Hill Falegnameria di Antonio Villas e le grafiche di comunicazione sociale e commerciale del progetto ZIP hanno prodotto spazi comuni e istituzionali inediti: habitat sociali diversi che affermano la dignità come strumento di emancipazione e benessere, contro la miseria dell’assistenza istituzionalizzante.
Questa sperimentazione è diventata logica di progettazione oltre la salute mentale, nei distretti di salute e negli interventi comunitari che agiscono la cura come cultura, giorno dopo giorno. Il diritto al bello come cardine della cittadinanza.
Entrare Fuori
All’ex-OPP nel 1983 nasce il Laboratorio P di arti visive, luogo di scambio e produzione in cui convivono partiche dell’arte, della cura e della cultura. Pittura, scultura, incisione, serigrafia, intervento urbano, gallerie d’arte e mostre in tutta Europa.
Dal 1980 il manicomio è ormai ufficialmente chiuso: i servizi di salute mentale sono già in città, per affermare una logica della salute mentale che intrecci le storie di ogni vita con la complessità urbana. Allo stesso tempo, lo spazio svuotato del manicomio diventa un luogo di incontro: la maggioranza deviante invade il parco di San Giovanni.
Nel fiorire di pratiche e forme, l’esperienza basagliana si contamina sempre più attraverso nuovi dispositivi di proliferazione e rottura. Eppure di queste onde di trasformazione poco sembra restare oggi. Restano pochi oggetti, tanto che nei primi anni duemila furono le “Reliquie”, sopravvissute all’ennesima inondazione, a raccontare della tensione sempre effimera e rischiosa tra arte e tempo.
Ma soprattutto resta il problema di come combinare oggi spazi e strumenti per lasciarsi di nuovo prendere dal desiderio di trovare altre strade, altri suoni, altri corpi che risuonino con la vita.
Singolarità Molteplici
Il teatro è luogo di sperimentazione e produzione lungo un metodo tracciato da Claudio Misculin, prima con Angela Pianca (Velemir Teatro 1983), por rifondato con Cinzia Quintilliani negli anni Novanta, con l’Accademia della Follia.
Il metodo dell’Accademia cerca nella tecnica e nel corpo il limite per tradurre in scena gli impulsi, i miti, le forze dell’inconscio, seguendo la scia del teatro performativo e sperimentale del secolo scorso: oltre il teatro classico di rappresentazione, questa pratica restituisce alla scena il suo valore di festa e di rituale. Esperienza profonda e rivoluzionaria del corpo.
Oltre ciò, l’Accademia è invenzione di nuove forme istituzionali e di professionalità che traducono le singolarità artistiche in strumenti di trasformazione sociale e istituzionale, ulteriore grado divergente nella rivoluzione basagliana.
Confine di conflitto, indeciso e disubbidito, tra il dentro e il fuori, tra la vocazione e il mestiere, l’Accademia della Follia è uno spazio di molteplici possibilità del fare. Non teatro emarginato, né rappresentazione della marginalità, ma propriamente luogo di lavoro teatrale.
Oltre il Giardino
Nel 1973 a Trieste arrivano gli artisti. Non portano un sapere subordinato all’istituzione, ma rompono, nelle pratiche cura, la separazione tra luoghi, linguaggi, saperi e vita reale. Affermano l’emancipazione, invece della guarigione, come rifiuto del manicomio.
I murales di Ugo Guarino diventano l’epicentro di una sperimentazione: non più scritte nelle celle, ma sui muri dei palazzi. Lo spazio del manicomio è aperto. Graffiti e manifesti sfidano i limiti dei padiglioni, del manicomio e della città. “La libertà è terapeutica”, “la verità è rivoluzionaria”, “Viva Chile”. È il Settembre del 1972 e le parole gridate sugli edifici sono segni di una pratica collettiva che inventa altri modi di cura.
E poi Marco Cavallo, mito e maschera di questo processo, entra in scena. Il laboratorio di Giuliano Scabia e Vittorio Basaglia nel 1973 coinvolge gli internati nella costruzione di una macchina teatrale che sfonda le recinzioni del manicomio per entrare in città. Per portare nelle strade urbane i desideri e le voci di chi era invisibile.
Il teatro vagante sgretola i muri del manicomio e dispiega voci, gesti e vite che non torneranno più a tacere.