entrare fuori

All’ex-OPP nel 1983 nasce il Laboratorio P di arti visive, luogo di scambio e produzione in cui convivono partiche dell’arte, della cura e della cultura. Pittura, scultura, incisione, serigrafia, intervento urbano, gallerie d’arte e mostre in tutta Europa. Dal 1980 il manicomio è ormai ufficialmente chiuso: i servizi di salute mentale sono già in città, per affermare una logica della salute mentale che intrecci le storie di ogni vita con la complessità urbana. Allo stesso tempo, lo spazio svuotato del manicomio diventa un luogo di incontro: la maggioranza deviante invade il parco di San Giovanni. Nel fiorire di pratiche e forme, l’esperienza basagliana si contamina sempre più attraverso nuovi dispositivi di proliferazione e rottura. Eppure di queste onde di trasformazione poco sembra restare oggi. Restano pochi oggetti, tanto che nei primi anni duemila furono le “Reliquie”, sopravvissute all’ennesima inondazione, a raccontare della tensione sempre effimera e rischiosa tra arte e tempo. Ma soprattutto resta il problema di come combinare oggi spazi e strumenti per lasciarsi di nuovo prendere dal desiderio di trovare altre strade, altri suoni, altri corpi che risuonino con la vita. (continua a leggere)

All’ex-OPP nel 1983 nascono il Politecnico e il Laboratorio P. Il manicomio è ormai ufficialmente chiuso, i servizi di salute mentale sono già in città. Restano alcuni padiglioni attivi all’interno dell’ex-OPP in attesa di un ulteriore trasferimento delle pratiche di cura sul territorio. Viene affermata così una nuova logica della salute mentale che intreccia le storie di ogni vita con la complessità della città. Allo stesso tempo, lo spazio svuotato del manicomio diventa un luogo di incontro: la maggioranza deviante invade San Giovanni. Nel fiorire di pratiche e forme, si mescolano nel parco laboratori e spazi di formazione, attraverso i quali l’esperienza basagliana si contamina sempre più con la città.

Scrive Angela Pianca: «I Laboratori si configurano quindi come luoghi dove diventa possibile attuare interventi dinamici e pedagogici, stimolare capacità creative e di trasformazione culturale, di trasformazione dei ruoli predefiniti, delle etichette, dello stigma. Luoghi capaci di modificare concretamente le condizioni di vita delle persone, attraverso processi continui e faticosi di soggettivazione. Con progetti in grado di accrescere e promuovere livelli di partecipazione, di condivisione e di affettività; con grande attenzione alla qualità del processo, dei percorsi, dei prodotti».

Allo stesso tempo, nei laboratori si dà un processo di invenzione, scontro e trasformazione nel quale tante e tanti che sfuggono alla ‘normalità’ della vita di città possono affermare un altro senso. Fuori dal tracciato disciplinato del tessuto urbano, il laboratorio di pittura e arti visive P diventa uno dei punti nevralgici in cui macchine espressive si incontrano e in cui strumenti e spazi si combinano, per costruire un altro modo di fare cultura e produrre soggettività. Nella fuga dalla città chiusa, e poi nell’invenzione di macchine desideranti, collettive e radicali, “fasi” del laboratorio, sempre incerte e sovrapposte.

“Centro Diurno Diffuso, Politecnico o Cantieri Sociali: diverse enfasi che caratterizzano anche semplicemente la contingenza dello sviluppo di una disposizione organizzativa relativa alla ricerca e messa in campo di intelligenze, mezzi e luoghi per rispondere a bisogni; comunque rete di proposte e realtà differenti, che si genera e rigenera articolandosi tra idee, azioni e prodotti non riconducibili al solo “mondo della psichiatria”; entro cui i diversi soggetti, in una tensione alle valorizzazioni reciproche, possano essere titolari e protagonisti dei propri diritti, collegati alle proprie storie, al proprio sapere e saper fare; nel riconoscimento delle capacità/volontà di svolgere, insegnare, imparare un ruolo non passivo, finanche nonostante un bisogno di cura, assistenza o aiuto” (Carla Prosdocimo).

Scrive il Laboratorio P nel 1986, appena dopo la catastrofe di Chernobyl: «Siamo tutti macchine. Un ambiente macchina per le macchine che siamo, delicati noi, delicato l’ambiente, sennò le macchine si rompono – schizomacchine. Anche in Ucraina fanno i fuochi, ma anche raggi, non eco-logici. Futuristi, non vogliamo più vivere senza macchine ma vogliamo sceglierle, le nostre macchine dolci, sexy, macchine di sole, macchine di fuochi, macchine aereodinamice, macchine psicodinamiche, macchine corpodinamiche, macchine auto ed eterodinamiche».

E allora il laboratorio delle ecomacchine apre nuove connessioni tra arte e materia, per resistere alle onde nucleari che scuotono Trieste e per aprirsi alla città. Attraverso lo spazio, nel recupero dei padiglioni svuotati e delle espressioni negate, e attraverso un uso diverso di oggetti, muri, letti, mobili, finestre, per produrre un senso altro in cima alla collina di San Giovanni. Perde senso, nel lavoro che porterà a produrre le ecomacchine, la differenza tra chi attraversa il parco come utente, come autoctona, come artista, come lavoratore o cittadina. Le ecomacchine esplodono in città e attraversano i cenacoli dell’arte e legallerie, ma anche gli immaginari di tante persone.”

E poi le onde fotocopiatrici della xerox-art, grafia emergente dell’arte contemporanea degli anni Ottanta. Siamo nel mezzo di un’onda che afferma altri modi di fare arte che si confrontano con una crisi storica dei musei come istituzioni pubbliche e con l’appropriazione gallerista che inserisce la pratica artistica nel sistema di valorizzazione del mercato globale. Da Buenos Aires a New York, da Varsavia a Barcellona, alcuni movimenti sfuggono a questo processo, utilizzando le tecnologie per sfuggire alla verticalità dell’arte catturata dal mercato. Invece di andare verso il centro, verso i saloni, verso i musei, la mail-art e la xerox-art generano altre onde periferiche che proliferano da luogo a luogo. Trieste appare in questo panorama anche grazie alle risorse del Dipartimento di Salute Mentale: luoghi, padiglioni, ma soprattutto telefoni, fax e macchine fotocopiatrici.

Fotocopie che trasformano “tecnicamente” collage, manifesti, comics e disegni in ondate di controcomunicazione capaci di proliferare. Migliaia di persone arrivano ogni settimana a San Giovanni: proiezioni acetate queer sui muri della chiesa, laboratori di pittura senza tempi e spazi  fissati, musica elettronica, poesia e performance punk, sperimentazioni, sfide e a volte sconfitte. Dopo le onde nucleari, onde molecolari di un’altra soggettivazione nelle notti del parco.

È una maggioranza deviante che scopre se stessa nel parco e poi torna verso la città, come un’onda di contagio. Negli anni Novanta, l’epidemya t-shirt project è un «progetto  editoriale fatto corpo» che prolifera come narrazione nella città. Centinaia di magliette serigrafate al Laboratorio P raccolgono un palinsesto di disegni, icone e parole in tuffo. Scappate dal manicomio e dalla disciplina urbana, queste immagini indossate attraversano e contaminano la città, ancora avulsa dalle trasformazioni del parco (e del mondo), e raccontano un’altra storia, altre storie.

Eppure di queste onde di trasformazione poco sembra restare oggi. Restano pochi oggetti, tanto che nei primi anni Duemila il progetto de le reliquie recupera i pochi artefatti sopravvissuti all’ennesima inondazione per raccontare questo rapporto tra arte e tempo, tensione sempre effimera e rischiosa. Ma soprattutto resta il problema di come combinare oggi spazi e strumenti per lasciarsi di nuovo prendere dal desiderio di trovare altre strade, altri suoni, altri corpi che risuonino con la vita. Come possiamo pensare una pratica sociale delle arti come strumento espressivo e come luogo di progetto collettivo, in uno spazio urbano ogni giorno più ostile?