oltre il giardino

Nel 1973 a Trieste arrivano gli artisti. Non portano un sapere subordinato all’istituzione, ma rompono, nelle pratiche cura, la separazione tra luoghi, linguaggi, saperi e vita reale. Affermano l’emancipazione, invece della guarigione, come rifiuto del manicomio. I murales di Ugo Guarino diventano l’epicentro di una sperimentazione: non più scritte nelle celle, ma sui muri dei palazzi. Lo spazio del manicomio è aperto. Graffiti e manifesti sfidano i limiti dei padiglioni, del manicomio e della città. “La libertà è terapeutica”, “la verità è rivoluzionaria”, “Viva Chile”. È il Settembre del 1972 e le parole gridate sugli edifici sono segni di una pratica collettiva che inventa altri modi di cura. E poi Marco Cavallo, mito e maschera di questo processo, entra in scena. Il Laboratorio di Giuliano Scabia e Vittorio Basaglia nel 1973 coinvolge gli internati nella costruzione di una macchina teatrale che sfonda le recinzioni del manicomio per entrare in città. Per portare nelle strade urbane i desideri e le voci di chi era invisibile. Il teatro vagante sgretola i muri del manicomio e dispiega voci, gesti e vite che non torneranno più a tacere. (continua a leggere)

In “Morte dell’Inquisitore”, Leonardo Sciascia racconta dei muri delle celle dove l’Inquisizione teneva detenuti gli eretici a Palazzo Steri a Palermo. Ciò che più colpisce Sciascia è la molteplicità delle voci che prendono forma su quelle pareti e il modo in cui disperazione e paura, consapevolezza e preghiera, ironia e ricordi, insieme alle immagini dei santi, di allegorie e sogni, costituiscono la testimonianza “più viva e forte” dell’esperienza dell’inquisizione, contro i registri dei giudici. I rumori delle celle contro il discorso del palazzo. Nelle celle dell’istituzione totale, i tratti dell’immaginazione di un’altra vita oltre l’istituzione, oltre la parete. Iscritte, accumulate, sovrapposte, contrastanti, parole e segni sulla stessa superficie compongono una conversazione silente tra chi è internato ora, chi era li prima e chi sarà rinchiuso ancora, dopo di te: questa conversazione silente permette al prigioniero di diventare agente vivo, dentro ma contro una ripetizione senza fine dell’oggettivazione che l’istituzione impone con la carcerazione. Un palinsesto di sopravvivenza.

Non abbiamo registro di cosa fosse scritto sui muri dei reparti dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Trieste, altre però sono le parole che appaiono sui muri a partire dal 1971. Sono quelle dei murales sugli edifici, segni di una pratica artistica diffusa e collettiva (fatta di performance, immagini e parole) che ha contribuito alla critica e all’invenzione di altre forme istituzionali fin dagli anni Sessanta. Un altro grido appare sul lato di fuori dei muri dei reparti: “La libertà è terapeutica”. Il murale iscrive un nuovo senso della salute mentale, basato su cura e libertà invece che su violenza, negazione e segregazione. É una frase di Franco Basaglia contro l’ergoterapia come discorso tradizionale della psichiatria che si ripeteva senza sosta: “Il lavoro è terapeutico”. Una pratica di salute radicale che implica non solo un diverso significato della pratica medica e della salute pubblica, ma soprattutto la definizione di una diversa organizzazione della cura, dove la pratica tecnica è immersa nella riproduzione sociale, ed è strumento tra altri di cambiamento.

Altre scritte sono andate perse. Una, scritta sulla strada che portava al Padiglione Q del manicomio, nei primi anni Settanta, sembra un segnale per il traffico, quasi a indicare il nuovo status di un luogo. Le altre scritte, sui muri, verticali, esprimono un desiderio, una rivendicazione, una intenzione. Questo graffito orizzontale invece occupa una estetica istituzionale normativa, quella dei segnali stradali appunto, per rendere il cambiamento irreversibile. Il manicomio è svuotato, nessuno vive più qui e non c’è modo di tornare indietro.

Nelle parole di Basaglia: “Abbiamo dimostrato che l’impossibile può diventare possibile. Non credo che essere riusciti a condurre una azione come la nostra sia una vittoria definitiva. L’importante è un’altra cosa, è sapere ciò che si può fare. È quello che ho già detto mille volte: noi, nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo vincere. È il potere che vince sempre; noi possiamo al massimo convincere. Nel momento in cui convinciamo, noi vinciamo, cioè determiniamo una situazione di trasformazione difficile da recuperare”. “Non Abitato” afferma una irreversibilità possibile, costituendo un nuovo status pubblico di un luogo, occupando il codice istituzionale che organizza l’uso collettivo del resto della città, per dire che Il padiglione Q diventa città.

Gli status e la legalità dei luoghi sono parte materiale dell’assemblaggio del cambiamento, in cui giocano insieme altri attori non solo umani: le serrature divelte, la nuova generazione di psicofarmaci, i nuovi protocolli di cura, i contratti dignitosi degli infermieri, le reti sopra i letti abbandonati fuori dai padiglioni, Marco Cavallo in cima alla collina. Questa composizione di agenti, norme, ruoli e artefatti, iscrive materialmente e simbolicamente una nuova logica in quello spazio che era il manicomio. La lotta per sostenere la difficile libertà della vita urbana (non quella semplice costituita dalla libertà di scegliere tra merci) non si ferma però nella costituzione di un nuovo status per il luogo e la persona che soffre. Si tratta piuttosto di costruire una realtà complessa capace di rendere duraturo quel segno: noi non torniamo indietro.

quando il teatro rompe il cerchio

di Peppe Dell'Acqua e Giuliano Scabia

Un altro muro, un altro padiglione. Sulla parete di quello che era il Padiglione L (Donne Tranquille), una scritta dei primi ani Settanta grida a caratteri cubitali “La verità è rivoluzionaria”. Quasi illeggibile un’altra frase, iscritta provocatoriamente dal gruppo Marge, recita diversamente: “è sempre in nome della verità che si rinchiude. Credi solo alla tua.” Sul lato di questo murale è scritto “Bar”.

In questo palinsesto si affermano dunque un piano ideologico, uno polemico e una pratica quotidiana. E il bar è il Posto delle Fragole, luogo di una felicità possibile nella storia raccontataci da Bergman, e aperto nel 1972 dentro il manicomio e contro lo sfruttamento del lavoro gratuito degli internati. Uno dei luoghi più importanti della rivoluzione triestina. Al lato del Posto delle Fragole, un’altra cooperativa sociale, l’Agricola Monte San Pantaleone, ha fatto nascere un parco con cinquemila rose, uno dei roseti più belli d’Europa. Scritta un tempo su un muro nel mezzo della sofferenza e della privazione della libertà, questa scritta è oggi immersa in un palinsesto diverso, quella che Rotelli chiama “una città che cura”, dove è in primo luogo la molteplicità a configurare le possibilità della cura, nella vita quotidiana, per chi attraversa un momento di sofferenza.

Concatenamento di pratiche di espressione e superfici di apparenza, questo palinsesto comune lavora come vivo testimone di una prefigurazione fragile ma duratura di un altro modo di riproduzione sociale della cura. Attraverso il contrasto, l’esplosione, la congiunzione, afferma uno status: non abitato; nella giustapposizione e nell’ambivalenza marca una ecologia: la verità è rivoluzionaria.

“Noi siamo ancora qui”. Altri da noi, i mobili di San Giovanni ci avvertono che l’ambivalenza che le parole portano sempre con sè può trovare una piccola verità solo quando è processo concreto. L’istituzione è allo stesso tempo gestita e negata, come afferma Basaglia. Gestita perché il manicomio non può essere distrutto senza costituire una possibilità diversa di vita e cura, per chi sta soffrendo. Negata perché il manicomio va distrutto ogni giorno, deistituzionalizzando la pratica che il sistema salute produce giorno dopo giorno. Ma l’istituzione va pure inventata, ogni giorno: nuovi dispositivi istituzionali, nuove norme, nuovi ruoli, nuovi marchingegni, per citare Franco Rotelli, che rompano ogni giorno la grammatica dell’istituzione, la sua permanente tendenza alla ripetizione. Una intrusione senza fine.

Nelle conseguenze della crisi, nel momento del pericolo, queste immagini trattengono una memoria: una logica e un’etica della deistituzionalizzazione come logica altra dello spazio pubblico. Il palinsesto non è più sulla parete di una cella, ma sui muri dei padiglioni e per le strade della città, nella vita quotidiana dello spazio urbano. Il palinsesto, espressione multipla e mai conclusa, è in tensione permanente con la “grammatica dello spazio”.

Iscritto nel quotidiano, il palinsesto non determina una soluzione, piuttosto ravviva un affetto che istituisce qualcosa di nuovo. La cura come bene comune: pratica collettiva di riproduzione sociale che contesta la grammatica istituzionale come linguaggio dell’esclusione. I segni del palinsesto non costituiscono un discorso da difendere, quello prescritto del welfare, o da smantellare, nel nome della logica della privatizzazione. Piuttosto, il palinsesto iscrive queste memorie come parte e strumento del nostro contemporaneo, nel mezzo della crisi. Scritte sulle pareti e per le strade, non troviamo una nuova grammatica che ordina la città, ma una parlata comune che si produce e riproduce, che si afferma e viene contestata e negoziata ogni giorno.

Sono le mille scritte che usano la città come fosse una tela, che sfidano i confini e crepano i muri. Scritte sugli striscioni, nelle manifestazioni. Parole e corpi che una volta di più ci ricordano che sfidare la normalità, della violenza maschile sulle donne, dell’esclusione istituzionale per i matti, della paura razzista del diverso, e dell’abbandono colpevole dei luoghi, per quello che riguarda oggi noi, è una lotta quotidiana. E forse, in questo presente oscuro, è la prima e più concreta possibilità di una radicale trasformazione necessaria, che vale la pena fare prima di raccontare.